11 Agosto 2024

 

I girasoli di casa mia.

                 Il campo di girasoli era a circa cinquecento metri da quello di pomodori che, in quella calda estate, fu il mio agognato quanto terrificante posto di lavoro. Ci passavamo davanti con il camioncino che ci portava sui campi, la mattina all’alba e poi nuovamente al tramonto quando tornavamo verso le nostre baracche. A quell’ora i girasoli riflettevano il colore rosso del sole morente che sembrava poggiasse il suo stanco capo sulla corolla mentre una coperta di petali gialli lo avvolgeva per ripararlo dal freddo notturno. Guardavo estasiata quel campo di girasoli perché era bello e perché mi ricordava la mia terra. 

 

Partita da un minuscolo paesino nella parte settentrionale della Dobrugia, ero arrivata in Sicilia che avevo diciotto anni appena: una figlia che la mia famiglia non poteva più mantenere. “Tua madre non può più tenerti, costi cara. Vieni con noi che ti diamo un futuro”, mi aveva comunicato ‘lo zoppo’ dopo aver avermi scambiata con un bel rotolo di banconote che il mio patrigno aveva accettato senza nemmeno troppo dispiacere. Mia madre invece singhiozzava di là in cucina mentre cercava di sfamare i miei tre fratelli con una zuppa di cavolo nero condita a lacrime e fatica. Lo zoppo era un conterraneo che aveva capito che commerciare in carne umana era molto redditizio. Andava a trovare le famiglie che stavano per affogare ed in cambio di una manciata di spiccioli si portava via le figlie femmine. Mi portarono a Scoglitti, estrema periferia sud del Ragusano dove, grazie alla mia capacità di restare a lungo in apnea rallentando i battiti – gara che facevamo in estate con i miei fratelli tuffandoci nel lago Razim – riuscii ad evitare la prostituzione:

al rito di iniziazione mi rifiutai di fare allo zoppo il servizietto di prova e così lui mi riempì di bastonate fino a farmi cadere tramortita in terra. Lasciata a galleggiare nel sangue che fuoriusciva dalle tempie, mi credettero morta e mi infilarono nel cassone di un camion per smaltirmi nottetempo. Nessuno rimase a guardia di quel mezzo che conteneva, oltre al mio corpo lacerato, solo del materiale da costruzione. Sfregando su un bordo tagliente del cassone tagliai la corda che mi legava le mani e saltai sulla strada. Dopo un giorno di cammino tra i campi e le spiagge, tenendomi lontana dai centri abitati, scovai una piccola serra abbandonata nascosta in mezzo ad un canneto che l’aveva inglobata. Entrai facilmente dentro quel tunnel di cui restava solo l’intelaiatura di alluminio fatta eccezione per la parte in fondo che aveva l’ombreggiante verde ancora intatto.

Scivolai verso quel punto e stremata dalla fatica crollai a terra su qualcosa di morbido che, con mio estremo stupore, mi sembrò essere proprio un materasso. Altre congetture sull’oggetto che aveva attutito la mia caduta o sul posto in cui ero arrivata non riuscii a farne dato che svenni nello istesso istante in cui toccai terra. Dormii per due giorni e la mattina seguente un dolce odore di caffè mi accarezzò le narici. Dall’unico occhio che riuscii ad aprire vidi davanti a me un uomo alto, di stazza enorme, capelli legati a crocchia sulla testa, con la faccia bruciata dal sole ed una barba da talebano che mi sorrideva con in mano una tazza di caffè ed un pacco di biscotti: l’altro occhio era stato bendato così come la mia testa.

Djego era uno scappato, un irregolare come me. Mi portò a lavorare con lui e il suo caporale mi prese con piacere; mi disse che non aveva mai visto braccia così muscolose in una donna e a lui le braccia forti servivano, eccome. Pomodori in estate, patate in inverno e se non sgarravi e non facevi capricci avevi lavoro e vitto assicurato. L’alloggio lo condivisi con Djego che a poco a poco iniziai ad amare. La serra si trovava a ridosso della spiaggia e così la sera scivolavamo sulla battigia e al buio ballavamo al suono dolce delle onde. Poi ci comprammo un cellulare ed iniziammo a danzare con la musica dentro le orecchie. Per non farci scoprire non dovevamo fare rumore, né luce, né movimenti. Restammo come due morti viventi, innamorati, per un anno intero.

Un giorno tra i filari del campo dei girasoli scoprirono il corpo un uomo di trent’anni disteso lungo lungo piantonato da quei giganti dorati che lo proteggevano dai corvi e dai raggi cocenti del sole. Era vestito con gli abiti buoni che usava chi, potendosi mostrare alla luce del sole, la domenica andava a sentire la messa dei cattolici. Doveva essere finito dentro la trappola per i conigli e tutta la sua vita era fluita in un attimo giù nella terra.

 

Si sparse così la voce che quel campo, letto per amanti nelle calde notti estive, era in realtà un ponte verso la città, il porto e quindi le navi che partivano per il nord Europa.

Djego mi disse: “Tra crepare qui di fatica e morire insieme abbracciati su quel campo di girasoli, cosa è meglio?” Adoravo quel campo, amavo quei fiori che mi riportavano ai profumi della mia terra, ai miei fratelli, ai giochi spensierati dell’infanzia: morire lì avrebbe significato nettarmi da quell’orrore in cui mi avevano sbattuta e rinascere nella purezza.

E invece noi due non morimmo. Una sera di settembre, appena superato il limite di quel quadrato giallo, verde e marrone, gestendo a fatica i nostri corpi che si scomponevano nella corsa forsennata alla ricerca della libertà, la mia mente sfiorò appena il pensiero che forse, dopo tutto, avrei rivisto il campo di girasoli di casa mia.

2 risposte

  1. Un racconto breve che mi fa pensare a un ghirigoro: una linea continua, che a tratti devia formando una curva. A volte torna indietro, su se stessa, altre intraprende una via nuova, inaspettata. Così la protagonista disegna il suo destino, forzando il cambiamento in un percorso che ad altri potrebbe sembrare già tracciato.

    1. Ciao Loredana. Bella questa tua similitudine: in effetti una opportunità inaspettata anche se molto pericolosa che i due protagonisti accettano come alternativa ad un destino infelice già segnato per loro. A volte è bello poter sognare finali alternativi, no?

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