Marzo 2021
Le violenze e le prevaricazioni hanno tante facce e modi diversi di palesarsi: un violento si nasconde anche dietro ad una cattedra universitaria e una arrogante erudizione. Quando la cultura serve a mascherare la misoginia.
Maledetta zanzara. E’ venuta a ronzarmi sulla faccia che avevo preso finalmente sonno e quando ha cercato di pungermi, per cacciarla, mi sono data un pugno sul naso. Così, ormai completamente sveglia e intronata per la botta in faccia, mi son seduta sul sul letto e ho iniziato a pensare. E penso che io dalle zanzare ho sempre dovuto difendermi fin da piccola quando, a provocarmi le allergie pericolose, non erano le punture delle vespe bensì quelle delle zanzare, tanto che mia madre girava con il cortisone in borsa per salvarmi la vita.
Da Alberto invece non sono riuscita a difendermi. Alberto è stato il mio compagno per un anno. Era professore di Storia della Letteratura Italiana, la materia che avevo scelto per la tesi di laurea della facoltà di Lettere classiche e con la scusa di controllare il materiale che avevo raccolto o correggere i capitoli che avevo scritto, entrava nelle aule in cui seguivo le lezioni o piombava in biblioteca creandomi enorme imbarazzo. Quando mi chiese di uscire una sera a cena capii che mi faceva la corte. Non ne ero innamorata ma mi attraeva la sua grande erudizione e quell’aspetto arrogante e sicuro di chi sa di aver raggiunto una posizione di prestigio: «Sono un uomo di cultura. Tanto studio e severa applicazione hanno fatto di me ciò che sono» – si pavoneggiava dalla sua cattedra.
Così un giorno capitolai. Andammo a vivere nel mio piccolo appartamento di studentessa e una volta accasato Alberto smise i panni del professore colto e galante e mostrò la sua vera natura: iniziò a criticare il mio aspetto, il mio modo di camminare, di vestirmi, persino di mangiare. Le nostre brillanti discussioni sulla letteratura, sulla cronaca, i dibattiti sui libri che leggevamo divennero squilibrate: a suo dire il mio sapere era lacunoso, non studiavo abbastanza, non approfondivo e quel poco che leggevo lo capivo a modo mio. «Mi stupisco di come tu sia arrivata alla soglia della laurea. Perfino le zanzare, che tanto detesti, sono più brillanti di te!» – mi urlò un giorno. Era così convincente ed io così plasmata dalle sue chiacchere che credetti per davvero di essere come lui mi dipingeva: una stupida ignorante. Certo non era chiaro in che modo dovessi elevarmi al suo livello se poi mi impose anche di lasciare gli studi. «Non sta bene che la mia amante frequenti le mie lezioni. E comunque non hai bisogno di seguire altri insegnanti se hai me che, da solo, posso darti tutta la conoscenza che ti serve». Anche la mia tesi, mi disse un giorno, faceva schifo: pertanto mollai anche quella.
Poi venne la mia malattia. Alberto mi compativa ma non mi accompagnava mai in ospedale; diceva che la sofferenza era la morte di tutte le cose belle. Quando le cure da sole non ce la fecero, per darmi una speranza mi tolsero un rene. Alberto smise di elargirmi le sue quotidiane perle di cultura ed iniziò a vivere fuori casa frequentando noti locali notturni in compagnia di altre donne e molti uomini.
Un afoso pomeriggio estivo Alberto mi portò dai suoi genitori a Vaccarizzo, località balneare che negli anni Trenta era stata trasformata da zona paludosa in una serie di lotti su cui, tanta grassa borghesia catanese, aveva edificato abusive quanto orribili abitazioni. Ovviamente quel luogo pullulava di zanzare che, nemmeno scesi dall’auto, mi riempirono di punture facendomi gonfiare il viso. Ad accompagnarmi al più vicino pronto soccorso non fu Alberto ma suo padre: «Stai attenta a mio figlio, Laura – mi disse mentre attendevo che il mio codice rosso venisse chiamato – Il suo egocentrismo patologico, la sua saccenza perversa sono tossici. Alberto cercherà di distruggere la tua identità per ricrearla a sua immagine. Sua madre ha fatto lo stesso con me».
Non so se sia stato quell’avvertimento a farmi risvegliare fatto sta che quando la mattina dopo Alberto bussò alla porta, convinto di rientrare a casa dopo l’ennesima notte di bagordi, lo lasciai sul pianerottolo: avevo fatto cambiare la serratura sbattendolo così per sempre fuori dalla mia vita. All’illustre Professor Alberto Barone uno scandalo non conveniva, così non venne più né mi chiamò mai.
Ancora oggi non mi spiego come mai tra tante allieve che gli morivano dietro, Alberto avesse scelto proprio me: io che in famiglia ero stata addestrata ad essere forte e indipendente e lo mostravo con tutto il mio essere, io che odiavo lo stereotipo di donna sottomessa, io che per diventare giornalista avevo disubbidito a mio padre che voleva che studiassi legge per entrare nel suo studio legale avevo permesso ad un folle di dirmi chi ero e chi avrei dovuto essere.
La mia pericolosa amica mi ronza ancora intorno. BZZ, bzz, bzzz, mi sta dicendo che sono stata coraggiosa a lasciare Alberto e che è stato solo per debolezza se per un anno della mia vita sono stata in balia dell’uomo sbagliato. Mi rammenta anche che io ho sempre avuto una gran testa e che le mie capacità intellettive sono le stesse di un anno prima, tanto che la prossima settimana discuterò la mia tesi di laurea. Mentre applico sulla puntura una pomata che scongiuri la mia subitanea morte guardo con riconoscenza l’artefice di quella punzecchiatura: in fondo è grazie alla sua sveglia se stanotte mi sono chiarita le idee ed ho fatto pace con me stessa.