31 Dicembre 2023
Un racconto di fantasia scaturito da una testimonianza reale per sviscerare dubbi, paure e rabbia di chi la guerra non la vive sulla propria pelle.
Il parco davanti casa è bellissimo. Quando stavo a casa mia bramavo uno spazio verde così con le panchine, l’area giochi per i bimbi, la zona per la libertà dei cani, lo spazio picnic e grandi zone d’ombra. Ci sarei andata a leggere, a scrivere e a passeggiare con la mia Milù.
Nel posto in cui sono nata, quello giù in basso nello stivale, da cui sono dovuta andare via, non solo non esistono aree verdi come questa ma, al contrario, c’è una concentrazione di cemento tale da far dubitare sulla reale utilità dell’essere umano. Non avrei mai lasciato il nido di mia iniziativa, ma questa cittadina adagiata tra le valli delle Alpi Venete è stata l’unica in cui il locale quotidiano mi offriva una collaborazione come articolista per un anno intero: certo l’idea di occuparmi di cronaca nera, annunci mortuari e comunicazioni di servizio (matrimoni, battesimi, attività per le festività del Santo Patrono) non era proprio quello che avevo in mente quando presi la laurea in comunicazione e giornalismo, ma avrei finalmente fatto un’esperienza di lavoro e con il compenso avrei spedito pure qualcosa a casa. La lontananza dagli affetti è l’aspetto che avevo sottovalutato o, forse, quello a cui non avevo voluto pensare, e questo polmone verde è l’unica cosa che rallegra la mia esistenza qui. Tanto che al ritorno dall’ultima vacanza giù ho portato con me il mio Labrador Milù sia per alleggerire mio marito da una incombenza domestica sia per sentirmi meno sola. Tutti i pomeriggi, tranne quando diluvia o la neve è troppo alta e il ghiaccio sulle strade le rende viscide, vengo qui per lavorare, leggere il libro del mese o guardare un film sul portatile. Questo giardino ha una bella forma ottagonale al cui centro è posta una fontana, larga quattro metri e profonda non più di uno, anch’essa di forma ottagonale, sormontata da un delfino dalla cui bocca la sera zampilla un fiotto di acqua che cambia colore ad intermittenza ed arricchisce l’atmosfera di caldo romanticismo. Anche quando il delfino è a riposo la vasca è sempre piena per almeno ottanta centimetri tanto che dentro ci vivono beate alcune carpe argentate. Lungo i viali alberati, che costituiscono i lati dell’ottagono, sono allineate tante panche ombreggiate da salici piangenti, pini, thuje e odorose acacie che custodiscono storie e segreti di chi su quelle panche ci passa una intera vita.
La panchina su cui solitamente staziono si trova sotto una grande acacia così anche nelle ore estive più calde è sempre in ombra: appena esco dal giornale, in genere alle quattordici, salgo in fretta le due rampe di scala che conducono al mio monovanopiùbagno, indosso abiti comodi, afferro Milù con pettorina e guinzaglio e con passo forsennato mi dirigo al giardino pubblico con pensieri di romantica nostalgia per la testa.
Un pomeriggio di tarda primavera di un anno fa, varcai di fretta il cancello con il pensiero di godermi l’aria tiepida e un po’ di pace. La mia solita postazione, che sta proprio di rimpetto alla fontana, era già occupata e individuata un’altra poco distante, mi ci fiondai sopra constatando però solo dopo essermi seduta che all’altra estremità vi era seduto un uomo: capelli e barba bianchi, lineamenti nordici, portamento austero stava immerso nella lettura riparato da un capello scozzese alla Sean Connery e con la mano destra penzoloni accarezzava la testa del suo Golden Retriver che sonnecchiava ai suoi piedi. Mi alzai e piantandomi davanti a lui attirai la sua attenzione con un colpo di tosse. Avevo così tanta premura di stravaccarmi che anziché perdere tempo a parlargli con un cenno del capo lo salutai e con una rotazione del mento verso destra indicai l’altro capo della panca per chiedergli se fosse libera. La sua risposta sonora fu: “Prego signora si accomodi pure” – “Oh mi scusi. La ringrazio” mi giustificai io. Con Milù accanto che ogni tanto guaiva verso l’altezzoso Golden mi immersi nell’ascolto di un podcast, già iniziato durante il tragitto da casa, che raccontava la storia di un bambino che a soli undici anni era divenuto improvvisamente un soldato prendendo il posto del padre nella Resistenza. Come faccio solitamente, bloccai l’ascolto più volte per andare a cercare sul web le informazioni che l’uomo e il giornalista fornivano durante l’intervista. Trovai diversi articoli che parlavano di questa storia nonché tante foto recenti del suo protagonista. Su quelle fissai il mio sguardo, poi lo alzai verso il cielo come a cercarvi la risposta al mio quesito, dove avevo già visto quel viso che mi era sembrato subito familiare? Quando realizzai che quelle fattezze appartenevano all’uomo con cui avevo appena interagito mi alzai di scatto per stringergli la mano ma l’occhio mi cadde sull’articolo successivo: “La città di Brugio piange Pietro Banni il bambino partigiano del 1943”. Com’era possibile che quell’uomo che stava sulla panchina a pochi passi da me, vivo e in buona salute, fosse morto e già da un anno? Entrai in uno stato tale di confusione e stupore che mi incartai nelle mie stesse gambe e finii in ginocchio davanti a Milù che iniziò a leccarmi il viso. Meglio, così nascondevo le lacrime che tradivano un misto di vergogna, dolore fisico e paura per un fantasma che credevo di avere davanti. Quella notte a casa la passai sul web a studiare. Pietro era il terzo figlio di Giovanni e Maria Banni, lui artigiano nella segheria del paese di Brugio e lei pescatrice di fiume.
Su esempio del padre, Giovanni era venuto su antifascista e pure pacifista ed antimilitarista per indole era e quando era stato invitato dai giovani di Brugio a far parte della Resistenza non aveva avuto dubbi: quei ragazzotti, alti e forti come querce, dai visi rubicondi protetti da folte e incolte barbe nere, organizzavano sabotaggi per far deragliare i treni, attivavano incursioni nelle caserme dei carabinieri, pianificavano l’ingresso degli alleati al Nord e aiutavano i partigiani compromessi a fuggire dal Paese. La loro attività divenne così importante che dai nascondigli nelle montagne passarono a rifugiarsi nelle città e i ‘corrieri’ di collegamento tra la fitta rete di squadre divennero di fondamentale importanza. Purtroppo, la copertura di Giovanni saltò, lui venne arrestato e tenuto nella locale scuola subendo interrogatori e torture. Serviva quindi un sostituto, uno che non destasse sospetti e il piccolo Pietro si prestava benissimo allo scopo: le donne e i bambini giravano per strada indisturbati e così Pietro poteva raggiungere i ragazzi nascosti nelle grotte e nelle gallerie lasciate dagli austriaci del Monte Sella, per portare loro cibo, documenti ed armi. Se doveva arrampicarsi su per i sentieri del Passo Sella la mamma gli sistemava i documenti dentro al giubbotto o sotto al maglione ma se la sua corsa doveva restare entro i confini del paese allora prendeva la bicicletta dove i documenti potevano essere trasportati sotto al sellino o dentro il telaio. Dopo aver depositato la merce gliene caricavano addosso altra da riportare al bar del paese che fungeva da quartier generale.
Con questo fardello di storia poggiato sullo stomaco come un polpettone indigesto i pomeriggi seguenti tornai al parco nella speranza di rivedere Pietro: avevo l’opportunità di sapere cosa fosse una guerra direttamente da chi l’aveva vissuta. Rividi Pietro solo la settimana successiva: era di sabato verso le diciotto, arrivai trafelata con una copia de ‘Il casellante’ di Camilleri sotto al braccio e mi piantai a gambe larghe davanti a lui. ‘Buonasera signora, bella lettura’ – mi freddò indicandomi il libro prima che io potessi parlare – ‘Oh, conosce il maestro?’ sentenziai non trovando altro da dire. Lui sollevò le braccia con aria di rassegnazione come a dire, ‘Già, chi non conosce Camilleri?’ Capii che il momento di parlare di storie dolorose era svanito per cui decisa a starmene zitta, con aria affranta, mi diressi all’altro capo della panchina. Non feci in tempo a sedermi che un vociare convulso iniziò ad aleggiare intorno a noi diventando in pochi secondi una vera baraonda di esclamazioni, tra cui riuscii a decifrare solo un ‘Aiuto è scomparsa’.
Successe tutto in pochi secondi: “Marta, Marta, dove sei? Dai Marta vieni fuori. Marta? MARTA! Aiuto, mia figlia è sparita!” Movimenti da impacciati a sempre più concitati di mamme che giravano in tondo in maniera scomposta, l’arrivo del Vigile di quartiere, il panico tra la folla. Nel turbinio di colori e sagome ebbi la sensazione che il mio vicino di panca stesse per svignarsela, non so perché, ma durò poco perché la sua reazione in realtà fu l’esatto opposto: dopo essersi guardato intorno ed aver assicurato il cane alla panchina, corse in direzione della fontana, tolse scarpe e calze, si arrotolò con cura i pantaloni, scavalcò il bordo e d’un balzo si chinò nell’acqua coperta di foglie da cui, dopo qualche secondo che parve una eternità, sollevò un fagotto grondante. Stese Marta per terra, le appoggiò l’orecchio sulla bocca poi la girò su un fianco dandole dei colpetti energici in mezzo alle scapole. Quel corpicino si scosse in un paio di singulti e dopo avere zampillato dalla bocca una notevole quantità di acqua riprese vita. Approfittando della madre che si era lanciata sulla figlia ritrovata, il mio partigiano si mischiò alla folla accorsa e indietreggiando lesto si dileguò. Sparito, volatilizzato in un puff e con lui anche il cane.
Riuscii a scorgerlo mentre guadagnava l’uscita del parco e una donna gli veniva incontro con passo svelto. Si presero per mano e sparirono nel crepuscolo.
Troppo eccitata ancora per l’accaduto a casa non riuscii a mandare giù nemmeno una fetta della pizza che mi ero preparata la mattina e indossato malamente il pigiama mi buttai sul letto cercando in rete qualche altra informazione che potesse far luce su questa storia. Ma oltre gli articoli pubblicati dal locale giornale ‘L’eco del Veneto’ e che aveva già letto non trovai altro. Decisa a non mollare riascoltai nuovamente tutta la mezzora del podcast. L’intervista risaliva all’inizio del 2022, Pietro aveva compiuto ottant’anni e godeva di ottima salute. Con l’audio che andava nelle cuffie ripresi l’articolo che annunciava la sua morte e, dato che precedentemente mi ero fermata al solo titolo, lessi tutto il contenuto: Pietro insieme alla moglie Annarita erano partiti da Brugio nell’autunno del 2022 alla volta del Venezuela, dove abitavano i fratelli di lei e da quella data non avevano più dato loro notizie né al figlio che abitava a Londra, né ai parenti venezuelani che li attendevano. Con i cellulari che risultavano spenti e la coincidenza di un piccolo aereo per voli interni caduto nelle montagne andine i coniugi vennero dichiarati morti. Tornai all’ascolto: alla fine dell’intervista Pietro raccontava un episodio capitatogli alla fine degli anni Novanta, quando lavorava come dirigente in un’azienda veneta che fabbricava mobili. “Ero uscito sul piazzale della ditta Emeraldi & C. per cui lavoravo ormai da dieci anni. Non mi occupavo della logistica ma mi avevano chiamato perché i mobili che dovevano essere spediti in Polonia non coincidevano con quelli della bolla. L’autista del camion, un uomo ormai vicino alla pensione, mi venne incontro ed appena iniziai a parlare afferrò al volo la mia provenienza. Mi disse che anch’egli era di Brugio ma da trent’anni viveva a Padova. Con una angoscia che mi cresceva nello stomaco chiesi a quell’uomo il suo nome e, alla sua risposta, la rabbia accecò la mia vista e la mia lucidità scomparve. Mi avventai su di lui come una fiera e gli scaricai addosso tutta la mia collera”. Durante il conflitto mondiale l’uomo era stato il capitano Marchesini, il fascista che aveva dato l’ordine di arrestare il padre di Pietro e che lo aveva torturato personalmente nelle stanze della scuola. Pietro continuò: “Un rancore a lungo sopito mi era esploso come lava da un vulcano. Ma quando mi staccarono da quell’uomo, che restava immobile a terra con il volto coperto di sangue, la vergogna mi assalì: avevo vendicato con la violenza un uomo che alle umiliazioni ed alle sofferenze fisiche aveva risposto con l’autocontrollo e che qualche giorno dopo la liberazione del 25 aprile aveva caricato su una Balilla e portato in ospedale un fascista ferito. Sentivo di aver deluso mio padre ed infangato la memoria di un partigiano che aveva lottato senza mai alzare una mano su chicchessia. Fuggii via e non tornai mai più al lavoro”.
il pomeriggio successivo mi affrettai ad andare al parco ma di Pietro nessuna traccia. Percorsi i viali guardando tutti gli uomini che incrociavo e tutti quelli seduti sulle panchine fin quando esausta arrivai alla mia panchina e mi lasciai cadere per la stanchezza e la delusione di non aver chiuso una vicenda che meritava di essere raccontata. Come per abitudine girai la testa verso destra, come dovessi salutare Pietro e, annodato alla spalliera della panchina, notai un piccolo sacchetto che ondeggiava alla brezza primaverile. Mi avventai su quell’oggetto e, come speravo, dentro vi trovai un foglio di colore viola ripiegato a fisarmonica. ‘Carissima – recitava il testo – so chi è lei. So che mi ha studiato per tutto questo tempo e che l’altro giorno, prima che la bambina cadesse nella fontana, lei mi aveva cercato per interrogarmi, per sapere.
Dopo la liberazione dell’Italia dai Nazisti, io bimbetto di undici anni, avevo nel cuore solo la speranza che dall’indomani la nostra vita sarebbe tornata com’era prima della guerra. E invece così non fu perché le violenze che si susseguirono in quei mesi mi tolsero la fiducia negli uomini: la terra era rossa del sangue versato da fascisti e partigiani che, ormai alla fine della guerra, si lasciarono andare a vendette feroci ed inutili. Dopo l’episodio del capitano Marchesini rassegnai le dimissioni; con la mia liquidazione acquistammo un pezzo di vigna nella bassa Liguria, che avevamo adocchiato l’anno precedente quando vi eravamo stati in vacanza, e vivemmo della mia pensione e dei lavoretti di sartoria di mia moglie. Ma questa pace durò poco perché lo scorso anno alla fine dell’estate venni contattato dai parenti del capitano Marchesini che mi implorarono di perdonare le nefandezze del loro padre in fin di vita per una forma aggressiva di leucemia. Gli diedi la mia sincera pietà ma volevo rompere qualsiasi legame con quel passato. E così con mia moglie decidemmo di trasferirci in Venezuela per trascorrere in quel luogo lontano i giorni che ci restavano da vivere. La settimana prima della partenza la passammo dentro casa a consumare le scorte alimentari che avevamo stipato dentro al freezer per il periodo invernale ormai alle porte e così, non vedendoci più in giro e pensando fossimo già in Venezuela, i nostri concittadini, appresa la notizia dell’incidente aereo sulle Ande, diedero per scontato che la nostra vita fosse finita su quel volo. Sul giornale locale e per le strade i necrologi proclamavano la nostra morte. Meglio così, circostanze favorevoli avevano risolto la situazione. Dopo avere avvisato mio figlio partimmo quella stessa notte con l’auto e in qualche ora raggiungemmo il nostro casolare in Liguria dove siamo rimasti fino a qualche mese fa quando siamo dovuti venire qui perché mia moglie sta facendo i conti con un tardivo e fastidioso carcinoma.
Se si sta chiedendo perché ho deciso di raccontarle tutto questo le rispondo che non è certamente perché voglio che la verità venga resa pubblica: al contrario se questo dovesse accadere capisce bene che la nostra serenità sarebbe persa, per sempre. Dal canto suo so che un articolo così le darebbe un gran lustro e il suo redattore le affiderebbe finalmente la rubrica ‘Personaggi che hanno fatto la storia’ invece di farle compilare elenchi di cittadini multati o morti. Quindi, se decidesse di far uscire l’articolo sul giornale per cui scrive, stia tranquilla la capirei. Quello che io credo invece è che lei sia più interessata a sapere cosa sia stata la guerra per chi l’ha vissuta sulla pelle, cosa voglia dire essere stati degli ingenui fantocci nelle mani di insensati, crudeli burattinai; lei brama di conoscere chi erano i buoni e chi invece uccideva, torturava, abusava, chi è uscito vincitore e chi ha subito. Ma la giustizia in una guerra non sta tutta da una parte; per chi vive una guerra sulla pelle non c’è tregua alla paura, al dolore fisico e dell’anima, allo sconforto, al terrore costante di restare ingabbiati nell’odio che scaturisce dall’odio e ne genera altro ancora e ancora finché si perde l’essenza di esseri umani. Ecco io mi commuovo ancora al pensiero di mio padre che con grande coraggio e coerenza riuscì a restare fedele ai suoi principi di giustizia e umanità”.
Un anno è trascorso ed è di nuovo primavera. Io ed il mio amico partigiano sediamo sempre alla stessa panchina ed i nostri cani sono diventati amici. A volte lui mi racconta di qualcuno di quegli eroi che hanno sacrificato la loro vita per difendere la Patria; mi confida dell’amore di sua madre e del fratello che fu barattato con la vita del papà e in questo modo esorcizza la sofferenza che porta dentro. Io lascio che le sue parole scorrano sui miei timpani. A volte un pensiero mi sorride malizioso, ma io ho promesso: i suoi ricordi saranno custoditi solo dalla mia memoria. E nel mio cuore.