Febbraio 2021
Un incontro casuale, un quartiere ‘a luci rosse’, un esperimento commerciale diventato ospizio per gli emarginati; una ‘carabiniera’ con un passato travagliato ed un omicidio che porta alla luce una esistenza dolorosa.
Quella sera non toccava a me il turno di notte. Ero stata in stazione lo scorso sabato e quella notte ci doveva essere il Rapicavoli a proteggere la città da malandrini e schizzati ma, come capitava spesso, il sabato sera il Maresciallo Capo Rapicavoli aveva sempre qualcosa che lo tratteneva a casa: o era un’otite o era la nonna in fin di vita, fatto sta che spesso si defilava.
La chiamata arrivò in centrale verso le ventidue. Organizzammo due pattuglie e in mezz’ora arrivammo sul posto. Io in macchina con il mio Appuntato Scelto Carolina Incardona: ogni volta che salgo in auto con lei invecchio di un anno e le giuro di spedirla alla viabilità. Ma poi mi promette che proverà a guidare con prudenza ed io dimentico. Siamo ritornate a Catania insieme, siamo quasi coetanee ed entrambe zitelle. In pratica siamo una coppia di fatto e mi sa che oramai ci tocca restare insieme.
Giulia la trovammo per terra, attorniata da escrementi di gatti e resti di cibo rinsecchito, segno che era lì già da qualche giorno: un sacco floscio, nuda con addosso solo gli slip, il petto poggiato sulle cosce e le braccia ripiegate all’interno. Doveva essersi inginocchiata forse per chiedere pietà al suo carnefice, quando un colpo violento le aveva frantumato il cranio.
Giulia è un nome di comodo che le diedi io per redigere il verbale dato che la ragazza non aveva documenti con sé. Avrà avuto circa vent’anni e probabilmente proveniva dalla Bielorussia. Dopo averla distesa sulla portantina di ferro scoprimmo che aveva la gamba destra visibilmente più corta della sinistra – disabilità questa che le impediva di avere prestazioni ottimali con i clienti – e dopo l’ennesima sfuriata il suo pappone aveva deciso di farla fuori definitivamente: un’irregolare che non rende non si può lasciare libera, non può più tornare a casa e quindi bisogna eliminarla. Con questa ipotesi chiusi il rapporto relativo al ritrovamento del cadavere di una giovane donna in una zona commerciale di Catania ormai da tempo abbandonata.
Nel quartiere San Berillo, centro storico della città di Catania, c’è un groviglio di vicoli ciechi, bui e maleodoranti di piscio e spazzatura in cui i disgraziati che ci vivono per campare commerciano del proprio corpo tanto che quella zona viene impropriamente chiamata “quartiere dell’amore”. Qui le case sono per la maggior parte un’unica stanza senza arredo, né luce, né finestre o acqua corrente con dentro una occupante abusiva che fa un servizio in piedi frettoloso e a basso costo.
Una di queste strade, chiamata via Fondaco Bianco, finisce in uno slargo in cui svetta lo scheletro di un grande capannone di cui sono rimasti in piedi solo quattro pilastri di cemento coperti per metà da pannelli di lamiera e per metà dalla benevolenza del cielo. Costruito nei primi anni 80, per dieci anni aveva ospitato un primo esperimento di centro commerciale che da subito aveva avuto un discreto successo. Poi la crisi economica nel 2000 aveva costretto gli esercenti a chiudere in tutta fretta i negozi ed abbandonare la struttura. L’usura e gli eventi atmosferici ruppero i vetri delle finestre, divelsero le porte e scoperchiarono il tetto; il vandalismo di teppisti e reietti completò l’opera. Ad usufruire di quel che restava del capannone ora erano clochard, clandestini, divorziati sfrattati dal proprio domicilio, drogati, alcolizzati e prostitute senza un alloggio. Una volta la settimana c’era una retata: ripulivamo quel posto che, appena giravamo l’angolo, tornava a ripopolarsi.
Non so perché, ma la posizione in cui trovammo la ragazza mi riportò alla mente quando ogni mattina prima delle lezioni, insacchettate nelle nostre belle divise di poliestere nero, andavamo in chiesa per un saluto al cielo e ai suoi abitanti. Se non ci andavamo la Madonna si arrabbiava e poi ci puniva facendo comparire sul nostro adolescenziale corpo antiestetici, mostruosi difetti: queste erano le minacce di cui le monache si servivano per piegarci all’obbedienza. Inginocchiate sui banchi di legno a ripetere un mantra cantilenante e soporifero, ci alzavamo con le ginocchia segnate dal dolore.
«Maresciallo Serena, venite presto» – «Appuntato Incardona quante volte ti ho detto che non devi chiamarmi così. Maresciallo Rizzotti mi devi chiamare, hai capito? Che c’è?» Appoggiata ad uno dei pilastri di cemento, con la testa mi invitava ad andare a vedere: dietro quella colonna fatiscente si apriva un enorme spazio attiguo alla zona in cui avevamo trovato la clandestina cadavere. Con l’ausilio di tende appese ad una rete di fili metallici che correvano da un pilastro all’altro, quello stanzone era stato diviso in tante piccole camere. Queste cellette, con dentro un materasso o un groviglio di coperte come giaciglio, una scatola di cartone che fungeva da comodino ed un secchio come gabinetto, raccontavano di fughe dalla patria, di soprusi, di dolore e sconfitte.
Rovistando quel luogo alla ricerca dell’oggetto che aveva ferito mortalmente la ragazza, notai una foto appesa all’interno di una tenda con una spilla a balia: raffigurava il prospetto principale del collegio ̔Le pie figlie di Gesù̕ e sopra, con un pennarello rosso, ci stava scritto ̔Licenza liceale 1990̕̕. A fare da comodino qui c’era uno stipetto di metallo, di quelli che di solito si appendono in cucina, che conferiva a quel posto un’atmosfera di casa. Aprii lo sportello, dentro c’erano altre foto. Le presi e iniziai a sfogliarle già con un brutto presentimento: alla terza foto, infatti, per poco non caddi a terra. Mi ritrovai seduta dentro la macchina di servizio con l’Appuntato Incardona che mi fissava mentre addentava un panino generosamente imbottito di mortadella. «Marescià, che posso farci, a me gli spaventi mi mettono appetito. Ma che vi è successo? Avete trovato qualche indizio importante?» – mi chiese in tono sospettoso. Sviai la sua domanda farfugliando qualcosa per non dirle che in una di quelle foto c’ero io insieme alle mie compagne di liceo nell’ultimo anno della maturità.
Tornando in ufficio, appesa alla maniglia di sicurezza mentre la Incardona attraversava la città semideserta con la velocità da Formula Uno, ricordai che un paio di mesi addietro il mio Appuntato Scelto mi aveva lasciato sulla scrivania una busta color giallo paglierino, di quelle che si usano per comunicare la partecipazione ad un matrimonio e, pensando fosse niente di importante, l’avevo gettata nel cassetto.
Arrivata in ufficio, aprii il cassetto e ne estrassi la busta: dentro c’era una lettera scritta di pugno con grafia incerta «Cara Serena, l’altra sera ti ho vista in televisione al telegiornale delle venti che parlavi del ritrovamento della bambina scomparsa nel bosco di Grappidà. Che brava che sei e quanto sei bella, così decisa, così forte. Anche io ho una bella vita sai? Ho un marito che mi mantiene e poi sono libera di andare dove voglio! Ecco, volevo solo farti sapere che sono orgogliosa di essere stata tua amica. La tua compagna di classe Linda Borboni”.
La chiamavamo tutti Paperina perché con quelle sue lunghe braccia ad ogni passo urtava qualcosa o menava involontariamente qualcuno. Di lei sapevo solo che dopo il diploma si era sposata e non aveva fatto la maestra come tutte le altre. D’altro canto, io sapevo ben poco anche di tutte le altre compagne di liceo dato che avevo deciso di disertare le riunioni che puntualmente si organizzavano per festeggiare l’anniversario del diploma. A chi poteva interessare la vita di una militare che anziché un uomo aveva sposato il suo lavoro, che al posto dei figli aveva adottato un cane, che all’occorrenza era la sua confidente, che il sabato sera non andava in pizzeria ma sveniva sul letto, sempre se non era di turno. E che se mi avessero chiesto, Cosa hai fatto dopo il diploma, avrei dovuto rispondere che avevo lottato per liberarmi da un amore malato, che per dieci anni avevo vissuto lontana dalla mia odiata Terronia e che vi avevo fatto ritorno solo dopo essermi affrancata da una vita di lacrime e paura.
Quella lettera non mi convinceva: perché una che non vedevo da trent’anni all’improvviso sentiva il bisogno di farmi sapere che il marito era un brav’uomo? Questo per un investigatore significava l’opposto e cioè che Linda libera non lo era per niente. Dopo una notte agitata mi alzai quando il sole aveva appena iniziato ad imporporare il mare. Entrai in veranda ed accesi la televisione, quasi avessi un presentimento. Prima notizia del telegiornale locale, mega retata dei colleghi della stazione San Berillo nel ̔quartiere dell’amore̕. I militari dovevano essere arrivati lì appena noi avevamo lasciato di fretta quel luogo a causa del mio malore.
Mentre il giornalista Forzuso raccontava i fatti, le immagini sullo schermo mostravano i colleghi che nettavano quel luogo portando via spazzatura umana. Dietro quel movimento di anime che venivano traghettate verso porti più sicuri, mi colpì la figura di una donna che, immobile sul suo materasso, cercava di rendersi invisibile rannicchiandosi sotto una coperta. Impossibile non notare accanto a lei lo stipetto di ferro in cui avevo trovato la mia foto. Altro che marito compassionevole – pensai – ecco dove ti ha portato la sua magnanimità. – «Incardona, muoviti, vieni a prendermi. Ti aspetto sotto casa» – le urlai mentre mi precipitavo dalle scale con le scarpe messe a metà.
Arrivammo in via Fondaco Bianco che era ancora deserta così come il capannone. Poi un rumore di secchio di latta rovesciato e passi di corsa sul selciato amplificati dalla cenere vulcanica che lo ricopriva abbondantemente. «Altolà. Fermo là» – intimò Incardona. Nel fascio di luce da duemila lumen apparvero un paio di occhi nocciola che brillavano su un viso color della notte. In cambio della libertà quel ragazzo mi disse alcune cose sulla donna che cercavo: che stava in quel capannone da due anni per nascondersi dal marito violento e drogato, che era benvoluta perché aveva una parola di conforto per tutti e che per mangiare non si prostituiva ma vuotava i secchi e faceva le pulizie negli stanzini.
Ero confusa e sbigottita: come aveva potuto una ragazza della borghesia bene degli anni 80, figlia di una Catania conformista e bigotta finire in un posto così lontano da quella realtà?
Qualche ora dopo, mentre lasciavo il Tribunale dove avevo assistito all’ultima sentenza che condannava il mio ex compagno a cinque anni di carcere per violenza domestica, ricevetti una telefonata da Incardona: «Marescià, ci hanno chiamato dal capannone. Hanno trovato una donna appesa al tetto. Ha usato ̔quello̕ stipetto metallico per appendersi al filo di ferro…» – «Ma porca miseria, neanche il tempo di capire come tirarla fuori da quell’inferno ho avuto?» – urlai – «Maresciallo, non mi avete fatto finire: la donna viene dallo Sri Lanka».
Tirai un sospiro di sollievo: se quella poveretta penzoloni fosse stata Linda non me lo sarei mai perdonato. Passai oltre la mia auto e inizia a camminare velocemente senza meta: quella giornata non sarei andata in ufficio, dovevo pianificare la salvezza di una povera anima che era rimasta intrappolata nelle pieghe della vita.